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al testo di Emilia Filocamo
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La stazione è ancora treni, la ola dei palazzi in altero convegno, " Ok Computer" manda bagliori color ufficio dall'angolo con i parcheggi. Se un Mario arriva con la borsa tronfia, un altro scende sottile più di un filo d'acqua; io non conosco il rumore delle rotaie ma so come le hai intese nei tuoi via vai. Tu portavi neve in riva al mare ed il mare, per punirti, ti portava via me. La porta sta socchiusa come allora: il " Privato" è un cave canem a cui dovevo piegare il collo, ma come spesso accade agli indecisi, me compresa e bandierina, ho sfidato l'apertura, un'Idra abbaia, un'Idra muore, ed il bocchettone lussurioso, la boccia che trasudava olio. E madida del gran peccato, ho cercato, una volta uscita, di ripulirmi la schiena, lì dove forse era più carne la mia propensione al volo. La stazione è ancora treni: bisce grigie e d'amaranto risalgono il mestruo caldo del sud e vanno verso la cerebralità dei portici e delle torri di tutti i nord. Lì dove tutto è meccanismo, fabbrica e pedali alla domenica, lì dove l'onda è la pagnotta del weekend. La stazione è ancora treni e le tue gambe impagliate a bordo città, hanno percorso un tratto della mia prima vita: laboratorio e geografia, statino, lode e promozione. Ma adesso che resti al cuore della molla che ti schizzò da queste parti, vorrei sentissi la mia felicità traslocata dagli scambi, dal ritardo, dalle chiome separate o ladre e dalla stanza, alcova - spia. Ho affittato un corpo un tempo, restio sigillo, un mulo, una cassa: felicità è che non s'apra subito per scoprirsi semplice e mai abbastanza da dirsi al freddo.
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